martedì 9 maggio 2017

Gramsci e l'industria teatrale

Leònida Rèpaci ricorda che il 'grande amore di Gramsci era il teatro": a venticinque anni comincia a recensire, corrosivo, sull' «Avanti!».
Prendo due articoli del 1917, cento anni fa esatti, in cui lamenta i danni del monopolio teatrale. A Torino, dove abitava, molti teatri appartenevano ai fratelli Chiarella, che esercitavano appunto il loro strapotere sulla città, facendo girare "compagnie a contenuto leggero", abbassando in sostanza il 'livello estetico'. Erano anche gli anni in cui il cinema prendeva il proprio avvio, era muto, ma costituiva un avversario agguerritissimo del teatro.
Il 'trust', come Gramsci polemicamente lo chiama, oggi ha solo cambiato padrone,  oggi si tratta di monopolio pubblico, ma il risultato asfissiante è lo stesso. Infatti i direttori dei teatri alla fine devono badare al risultato economico esattamente come un tempo i Chiarella; abbonamenti,  biglietti venduti, gradimento, ma oggi in funzione della gestione-oppressione diretta dei partiti che gestiscono e manovrano a proprio piacimento e utilità, come e più di privati sebbene indossino il vestito pubblico. Ma questo il 'popolino' non lo sa (o non se ne cura); non sa (o non se ne cura) che il direttore artistico è solo espressione politica e d'interesse, e corre smanioso a vedere acriticamente quello che viene propinato e imbandito, con conseguente appiattimento e normalizzazione culturale.
La differenza sostanziale è che il teatro oggi ha perso il significato e l'importanza di un tempo, ed è stato reso inoffensivo come ormai tutte le espressioni artistiche 'fruite', (così l'arte figurativa, commercio, e la musica, tornato intrattenimento, 'bel sottofondo', come lamentava ai suoi tempi Kant, ma ora certa musica è soprattutto roba d'affaristi); mentre il cinema si è involuto in un'industria culturale con schemi fissi, e di contenuto e formali, attraverso cui, possibilmente, applicare il dominio. 
Buona e tenace lettura; il 'post' è lungo.


Cronache teatrali dall’«Avanti!»,  1916-1920

L’industria teatrale

"Politeama Chiarella: spettacoli di varietà, Cuttica, Spadaro e compagni.
Teatro Carignano: il miracolo vivente ovverossia il prof. Gabrielli che mette in sacco tutti i luminari della scienza.
Teatro Alfieri: 60a rappresentazione della compagnia d’operette di Luigi Maresca. Operette, varietà, vaudevilles di Carosio e di Cuneo, fenomeni viventi Fregoli, Petrolini, Cuttica, Spadaro e Titina.
Torino è diventata una fiera, Barnum è diventato il dio tutelare dell’attività estetica e del gusto dei torinesi.
Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il 
trust dei fratelli Chiarella. Lo spirito animatore è lo stesso: è lo spirito dell’accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a tutto ciò che non sia cespite di guadagno. Se domani sarà provato che è piú conveniente adibire i teatri alla rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi ghiacciati, l’industria teatrale non esiterà un istante a farsi rivenditrice di noccioline e di ghiacciate, pur mantenendo nella ditta l’aggettivo «teatrale».
Fa maraviglia una cosa soltanto: che l’autorità militare, cosí fiscale quando si tratta di requisire le scuole o il Teatro del popolo di Corso Siccardi, o il teatro Regio, dove non vanno e non possono andare che compagnie che veramente vogliono offrire al pubblico spettacoli di teatro, utili per l’educazione estetica e che rappresentano il soddisfacimento di una necessità buona, risparmino invece i teatri gestiti dalla ditta Chiarella, che ormai hanno perduto la loro genuina caratteristica d’arte e servono allo sfruttamento delle velleità di divertimento volgare.
Il trust teatrale a Torino è andato un po’ troppo oltre nella sua abilità industriale, Torino è completamente tagliata fuori dalla vita teatrale italiana. A lontani intervalli vi capitano due o tre delle maggiori compagnie drammatiche per una stagione straordinaria. Torino dà molto pubblico agli spettacoli di varietà, non è mai satura di ritrovi equivoci. L’industria teatrale è entrata in concorrenza con il varietà, cerca di accaparrarsi la categoria piú redditizia di questo pubblico. Persegue cosí il suo fine monopolistico. Le compagnie maggiori sono riservate alla provincia, ai piccoli centri, dove è naturale gli attori siano pagati meno, perché i teatri sono piú piccoli e gli incassi sono minori. Il monopolio trionfa. I teatri delle grandi città, anche se adibiti a spettacoli di ordine inferiore, rimangono redditizi, perché c’è tra i 500 mila cittadini quel certo numero di individui che li frequenta lo stesso. Gli artisti di varietà sono pagati meno, e il capitale si impingua. Nei piccoli centri, è necessario il grande nome per attirare la folla; gli artisti sono pagati meno perché la piazza è secondaria, e il capitale si impingua allo stesso modo. Le grandi compagnie si dissolvono, gli attori sono costretti per vivere a dedicarsi al cinematografo; l’industria teatrale, monopolizzata, non se ne preoccupa; i suoi affari prosperano ugualmente per l’impossibilità della concorrenza, per l’abbassamento del livello estetico che fa ricercare lo spettacolo di Petrolini o di Cuttica, e non fa rimpiangere le interpretazioni artistiche di Ermete Zacconi e di Emma Gramatica.
A Torino però il trust ha esagerato nella sua abilità industriale. Non sarebbe male che alla autocrazia del capitale monopolizzato si contrapponesse un’altra autocrazia. Quale ragione superiore può ormai piú oltre far considerare intangibili i teatri della ditta Chiarella, mentre i locali scolastici sono ritenuti tangibilissimi, e tangibilissimo è stato il Teatro Regio?
Petrolini, Cuttica, Spadaro e soci avevano i loro ambienti naturali. Quale superiore ragione artistica deve piú oltre permettere che la città di Torino diventi un feudo del varietà? È doloroso dover ammettere che in una grande città debba essere ristabilito il buon costume da un provvedimento autoritario. Ma è purtroppo cosí. Le esagerazioni del monopolio non possono che essere frenate dai calmieri di Stato.
(28 aprile 1917)


L’industria teatrale

A Milano si sono radunati a convegno, nei giorni scorsi, i rappresentanti delle tre categorie interessate all’industria dei teatri: i proprietari, i capocomici di prosa e d’operetta, e gli scritturati. Il convegno era patrocinato dal presidente della Società degli autori, per cercare di appianare pacificamente le questioni sorte fra il trust dei proprietari di teatro e quelli che per il teatro lavorano. Tempo sprecato. Le questioni non furono appianate, i proprietari non cedettero di una linea: ma il signor Giovanni Chiarella continuerà tuttavia ad appellarsi alla testimonianza dei capocomici italiani perché documentino il suo illuminato mecenatismo.
I capocomici domandavano il ritorno puro e semplice alle condizioni contrattuali anteriori alla costituzione del trust: 1) abolizione della propina tre per cento sull’introito di ogni spettacolo, imposta dal trust a favore dell’agenzia Paradossi; 2) abolizione delle prelevazioni, nel senso che tutti i posti vendibili nei teatri abbiano a figurare nei bordereaux a comune profitto dei capocomici e dei proprietari di teatro, eliminandosi l’inconveniente che una parte dell’introito rimanga a profitto dei soli proprietari; 3) ripartizione proporzionale su ogni spettacolo dell’ammontare degli affitti annui per palchi e barcacce, affitti che ora vanno a totale ed esclusivo beneficio dei proprietari; 4) riscaldamento a carico dei proprietari di teatro; 5) tassa serale a carico dei proprietari di teatro; 6) per le compagnie d’operetta le spese di orchestra a carico dei proprietari di teatro.
I proprietari non accettarono nessuna di queste proposte, sebbene fossero accompagnate da questi due compensi: 1) estensione a tutti i teatri dell’aumento del 10 per cento sul prezzo dei biglietti dei palchi e posti distinti già praticato in molti teatri e devoluzione dell’aumento a esclusivo vantaggio dei proprietari per compensarli dell’aumentato prezzo del carbone e dell’aumentata tassa teatrale; 2) riduzione del 5 per cento della percentuale sugli introiti serali devoluta finora ai capocomici. I proprietari invece fecero delle controproposte che miravano a far sorgere degli attriti fra capocomici e scritturati. Non vi riuscirono. Se il convegno è servito a qualcosa, è perché ha determinato un avvicinamento tra le tre categorie che sono direttamente danneggiate dal trust: gli autori, i capocomici e gli scritturati. I capocomici hanno concesso agli scritturati un nuovo contratto di locazione d’opera, contratto unico, paga annuale senza stagioni morte.
Certo non basterà questo principio d’accordo per scompaginare il trust e ovviare alla sua azione, deleteria per l’arte, e strozzinesca in confronto di quelli che lavorano. Il trust ha possibilità di rivalsa, contro le quali solo lo Stato potrebbe intervenire. Esso può boicottare subdolamente gli artisti drammatici, e aprire i suoi locali solo al cinematografo, a Petrolini, a Cuttica, a Gabrielli. Il signor Giovanni Chiarella si è fieramente adirato quando noi abbiamo constatato i primi effetti dell’industrialismo monopolistico a Torino. Le stesse cose scrivono ora, dopo l’esperienza del convegno di Milano, anche altri giornali. E usano precisamente quel linguaggio, per il quale il Chiarella ha creduto che lo si tacciasse di volgare affarismo. Riportiamo un brano di uno di questi articoli, scritto in un giornale, che, caso bellissimo, mentre è protezionista per l’industria propriamente detta, è liberista e avversario dei monopoli per l’industria teatrale, l’unica che studi e svisceri con criteri non amministrativi:
I proprietari di teatro sono riuniti in consorzio su basi commerciali e industriali: essi tutelano i propri interessi esclusivamente: dell’arte se ne infischiano. Pensar che a un tratto questa gente si trasformi in un’accolta di mecenati o di persone che si accorgano di non speculare su delle scarpe, sarebbe ingenuità.
Il consorzio oltre aver determinato anche nei teatri di provincia non consorziati aumento di prelevazioni, e aver fatto salire il prezzo dei teatri, finisce col tutelare male anche i propri interessi spinto da necessità insite nella sua natura.
Esso infatti, smanioso di accaparrarsi quanti piú teatri gli è possibile, è diventato e diventa proprietario di teatri di secondo e terz’ordine, che non rendono niente, e che rimangono chiusi gran parte dell’anno. E allora escogita quei mezzi balordi del cinematografo, dei visionisti, degli spettacoli sportivi, dei vari Petrolini, in modo da diminuirne anche la secondaria importanza, di sviarne il pubblico, di ridurli a dei locali buoni a tutto, come le sale superiori dei caffè: per nozze, banchetti, feste da ballo e altro. Anzi, è precisamente un criterio da caffettiere che ispira il consorzio, il quale è sempre in caccia del genere o dell’individuo che piace al pubblico e domani – logicamente – farebbe qualsiasi qualità di spettacolo se non ci fossero i vincoli delle leggi sulla moralità, sul giuoco e su altre miserie. È facile intuire in quali condizioni si trova l’arte drammatica alla mercé di costoro.
Tolte due o tre compagnie favorite, perché attirano gente, le altre che pure l’attirerebbero se potessero recitare durante le stagioni migliori, sono forzatamente escluse da ogni possibilità di far bene; e siccome raramente il valore commerciale coincide col valore artistico, il consorzio favorisce il primo a tutto danno del secondo? Senza contare poi che esso grava sui capocomici in modo da rendere loro difficile la gestione della compagnia e da determinarli a rappresentazioni solleticanti i piú volgari gusti del pubblico, anche nei teatri frequentati da persone colte, intellettuali e pronte a qualsiasi visione di bellezza.
(17 luglio 1917)
Antonio Gramsci


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