venerdì 26 maggio 2017

Una gabbia chiamata città

Copio un brano tratto da Architettura organica di Frank Lloyd Wright, che avevo inserito nel secondo Spettacolo della città di Prato (2015-2016), e che mi è tornato in mente in questi giorni difficili per pedoni e ciclisti.
Coloro che si vorranno occupare seriamente della gestione politica futura non potranno non pensare a un mutamento nel rapporto fra il cittadino e la sua città, dove ci sono troppe macchine, ostacoli, edifici, e troppo poco spazio per la vita. 

“Io personalmente ritengo che, sia le scuole, sia le città, hanno fatto il loro tempo. La grande città,venuta su a caso, poteva esistere una volta: oggi non più, è impossibile scientificamente. La vettura e il cavallo…il nemico fuori delle porte? Beh, chiudete le porte e il nemico non potrà entrare; quando si viveva una vita primitiva, e nulla c’era ancora della nostra civiltà meccanica, la città ipersviluppata aveva un valore perché era necessaria; ma oggi che valore può avere? Se fossimo meno addomesticati, se non fossimo pecore, se non ci fossimo abituati a lasciarci imporre di amarla, non potremmo più sopportarla. Ci vuol tutta l’energia di cui l’uomo è capace, per vivere ora in una qualsiasi delle città moderne. Non so chi ha detto che per aver voglia d'attraversare una strada di New York bisogna che uno sia nato sull'altro marciapiede. L'entrare in questo caos di case e l'uscirne sottraggono troppe energie e troppo tempo alla vita di un uomo. (…) Dovremmo già esserci accorti che la porta di questa gabbia – di questa “cosa” che chiamiamo la grande città – è finalmente aperta; la porta è aperta e possiamo fuggire. Noi possiamo andarcene dalla gabbia, ed essa può ben scomparire per sempre. Dovremmo comprendere che così come siamo ammassati nelle grandi città siamo vulnerabilissimi: possiamo essere distrutti in massa. Il nemico esiste tuttora; i popoli si odiano ancora, le forze della guerra esistono più che mai. (…) Nel villaggio ipersviluppato che viene chiamato metropoli, noi dobbiamo stare “attenti”, evitare la macchina, prendere letteralmente in mano la nostra vita per riuscire ad andare da un posto a un altro. Dobbiamo consumare tutta la nostra energia nervosa e metà del nostro tempo per andare e tornare – e il tornare è problematico – per mantenere vivo questo assurdo ammassamento urbano che assomiglia a un porcaio dove ci si urta e ci si gratta reciprocamente e la cui ragione d’essere è venuta meno coll’apparire di tutte le invenzioni scientifiche che ora ci minacciano da sopra e da ogni parte.

(Da Architettura organica di Frank Lloyd Wright, in L'architettura della democrazia, Milano, 1945).

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