giovedì 3 maggio 2018

Le terre incognite di Gonfienti

Pubblico un altro articolo del Prof. Centauro, di cui consiglio vivamente la lettura per comprendere anche la mancanza di Storia di cui soffre l'insediamento etrusco di Gonfienti. Guai, ai vinti!


La “terre incognite” di Gonfienti  
di Giuseppe Alberto Centauro


L’anno 390 a.C. segna una profonda linea di demarcazione tra la storia arcaica, dalla trattatistica retorica e letteraria, e il racconto storico su base documentale, come lo stesso Tito Livio non esita di riconoscere al cospetto dei grandi storici che l’avevano preceduto, quali Polibio e Dionigi di Alicarnasso. Il 390 a.C. è anche l’anno della capitolazione di Roma sotto le orde galliche di Brenno che ancor oggi risuona nel memorabile: “Guai ai vinti”. In quell’anno si era consumata anche la sorte di Gonfienti, sommersa in poche ore da rovinose acque fluviali. Una terra senza storia dunque quella di Gonfienti, persino confusa dal più grande storico di Roma, ora Camars ora Clusio. Di certo l’insediamento etrusco sul Bisenzio seppe rigenerarsi, sopravvivendo ancora per secoli fino alla tabula rasa di Silla in vari ambiti satelliti che dalle sue rovine crebbero in potenza e si svilupparono: a sud, Artimino; ad est, Fiesole; ad ovest e a nord, i segni territoriali si confondono però nelle reminiscenze leggendarie di una Bisenzio mercantile e di un arroccato Clusio (luoghi più o meno corrispondenti ai siti dell’odierna Prato e di Calenzano). La rarefazione delle fonti storiche e, soprattutto, la grande colmata alluvionale che fin dal V-IV secolo a.C. ha coperto per l’intero gli sbocchi vallivi dei torrenti Marina e Marinella fino alle sponde del Bisenzio, da Gonfienti a Capalle (Campi Bisenzio), ha fatto sì che di questo straordinario lembo di pianura rimanesse in luce solo l’arcana bellezza corografica dei suoi monti. Lo testimoniano i massicci della Calvana e del Morello, oggi separati da illogici confini amministrativi, disegnati con linee geometriche senza alcun significato quasi si trattasse dei deserti coloniali nord africani.  Poco di più ci è dato di sapere, nonostante i tanti reperti dissotterrati nei cantieri edilizi della zona e nonostante gli innumerevoli segni materiali di antichissime antropizzazioni, anche perché la paludata archeologia istituzionale sembra avere perduto l’originaria propensione alla ricerca sul campo. La curiosità di un tempo ha lasciato il posto alla routine e così le terre di Gonfienti, al pari dell’insediamento etrusco sotto l’Interporto, sono disertate, non interessando più alcuna perlustrazione geofisica dei siti e con essa ogni altro tipo di autonoma verifica archeologica. La spessa coltre dei sedimenti alluvionali della Valdimarina, ulteriormente incrementata da secolari arature e da esiziali trasformazioni infrastrutturali, conferma però una ricca stratigrafia archeologica che mostra chiaramente la discontinuità temporale che segnò la fine della città etrusca e con essa i segni del disastro ambientale, umano e naturale che interessò quel territorio. Fu forse il sistema di dighe a collassare e generare una sorta di primigenio Vajont in tutta la piana? La lettura sedimentologica dei terreni avvalorerebbe questa ipotesi se solo si procedesse in modo sistematico con le indagini in situ. Se, agli esordi del VI sec. a.C., il tracciamento della via etrusca che conduceva in tre giorni da Pisa a Spina, poneva al centro del sistema politico Gonfienti e, al di là dagli appennini, Kainua (Marzabotto) [“CuCo” 251, p. 14], si sanciva pure la piena occupazione dei territori cispadani da parte degli Etruschi, ma nondimeno i Galli stavano iniziando la loro inarrestabile penetrazione dalle terre dell’Oltrepò lungo la dorsale fino al mare, alla coste marchigiane (fiume Esino), impadronendosi pian piano delle terre abitate dagli Etruschi e dagli Umbri che da tempo  facevano parte del vasto Stato clusino, al quel tempo più grande della Roma regia, posto tra gli Appennini e l’Adriatico. Come ricorda Livio, op. cit. [“CuCo” 259]  popolazioni celtiche passarono in Italia a cercare terre fertili duecento anni prima dell’invasione dei Senoni di Brenno del 390 a.C., dunque ben prima che Chiusi (ma quale Chiusi?) fosse assalita e che Roma fosse presa (ducentis quippe annis ante quam Clusium oppugnarent urbemque Romam caperent, in Italiam Galli transcendere, (V, 33, 5).  Non meravigli dunque l’appellativo clusinum riservato da Livio alle aree dell’Etruria cispadana che, di certo, mutuava dalle sue origini arcaiche: come Felsina (Bononia) da Velzna (la romana Volsinii), come l’etrusca Klevsin nella romana Clusium, ma anche Clusentinus che identificava le due valli appenniniche umbro-etrusche del Mugello e del Casentino. Clusinum è dunque un toponimo archetipo utilizzato nella storiografia romana che contrassegnava un territorio molto esteso: “terre incognite”, diremmo oggi, nelle ascendenze etrusche da esplorare ex novo, che evocavano l’epopea del grande condottiero che nel VI sec. a.C. le riunificò: il nobile Porsenna, re di Chiusi (Lartem Porsennam, Clusinum regem) (II, 9, 9).
(Articolo pubblicato anche su Cultura Commestibile nr. 260)

Fig. 1 – le terre alluvionali in Valdimarina sommerse tra la fine del V e il principio del IV sec. a.C. (ricostruzione di  G.A. Centauro).

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